Lo Stato sconfitto dalle bande ultrà

novembre 13, 2007

Caserme di polizia e carabineri cinte d’assedio a Roma, la sede Rai di corso Sempione a Milano circondata da centinaia di persone in assetto di guerra, decine di giornalisti e cineoperatori picchiati e minacciati, cortei non autorizzati, danni ingenti al patrimonio pubblico e privato in tutto il Paese. Che cosa è accaduto domenica scorsa in Italia? La risposta, al netto di ogni interpretazione sociologica e analisi politica, è purtroppo molto semplice: è accaduto che il contropotere ultras ha strappato allo Stato il monopolio della violenza, ha dettato le sue condizioni, ha imposto nelle strade e nelle piazze italiane la sua legge. Che dovevano fare, si obietterà, il ministero degli Interni e le forze dell’ordine? Ancora una risposta semplice: quello che sono chiamate a fare, garantire cioè il rispetto della legge e l’ordine pubblico. Certo, prima dell’insurrezione generale c’è stato l’omicidio di Gabriele Sandri, ucciso in circostanze ancora da chiarire dal colpo di pistola di un poliziotto. È quello il casus belli, la molla che ha scatenato i gruppi organizzati delle curve di tutta Italia. Usare la forza contro gli ultras, viene allora detto, sarebbe stato poco saggio, avrebbe determinato una serie di reazioni a catena dall’esito imprevedibile. Non ci si rende conto invece che il ministro degli Interni ha sbagliato due volte. La prima volta nella grottesca gestione politica e mediatica dell’omicidio del giovane romano, avvenuto alle nove del mattino e silenziato fino alle 12. Una morte intorno alla quale sono ancora troppi i misteri, le dinamiche non chiarite, le omissioni. La seconda volta lo Stato ha sbagliato tradendo il suo senso di colpa lasciando la piazza al caos, dando una dimostrazione di impotenza, consegnando di fatto le città a un contropotere la cui forza è la debolezza di istituzioni sempre più divise e frastornate. Erano surreali domenica sera le dichiarazioni del ministro Giovanna Melandri che ripeteva «tutto questo non ha niente a che fare con i valori dello sport» promettendo placebo come il divieto delle trasferte per il tifo violento. Nessun esponente del governo, tanto meno il ministro Giuliano Amato, è riuscito ad andare oltre queste banalità di circostanza, mentre le bande costringevano i cittadini alla paura e lo Stato nei palazzi e nelle caserme.


Il Programma di Veltroni? Ottimo per la bicamerale

luglio 25, 2007

Giornaleda L’Indipendente del 25 luglio 

Walter Veltroni ha affidato al Corriere della Sera il suo manifesto programmatico da candidato leader del Partito democratico. «Dieci riforme per sbloccare l’Italia» annuncia il pomposo titolo. E dopo una lunga premessa sul malessere della democrazia nel mondo, sul significato lessicale della parola «democratico», sui mali del caso italiano, arrivano le ricette. Quali? Un pacchetto di interventi sul tessuto istituzionale, da approvare in Parlamento con accordi con l’opposizione: una sorta di agenda per una potenziale commissione Bicamerale, una delle tante che abbiamo già visto all’opera con scarsi risultati. Le proposte di Veltroni vanno dal superamento del bicameralismo perfetto (con il Senato delle autonomie locali) alla riduzione del numero di parlamentari; dalla nuova legge elettorale (con una strizzatina d’occhio al referendum) ai poteri del presidente del Consiglio; dal completamento della riforma federale (ma il centrosinistra non si è battuto per demolirla?) al voto concesso ai sedicenni. La prima cosa che impressiona di questo programma è il fatto che, a parte le ambizioni del titolo, non si vedono novità. Tutte le proposte di Veltroni sono, in qualche modo, già depositate in Parlamento, con tanto di firme di rappresentanti dei due schieramenti. Metterle insieme, in fila una dietro l’altra, può essere un utile esercizio per , appunto, una commissione bicamerale: ma non è certo quanto ci si aspetta dal fresco candidato di un partito che vuole governare l’Italia. Dove sta la novità? E la rottura? Strano: Veltroni, abilissimo comunicatore, dovrebbe avere capito che, senza strappi, nessun leader può affermarsi con la necessaria combinazione di autorevolezza e di entusiasmo. La seconda considerazione riguarda il perimetro nel quale si sta muovendo il candidato leader. Tutto politico, istituzionale, da addetti ai lavori. Per carità: le riforme istituzionali servono, e in qualche modo rappresentano un pezzo decisivo di un programma di cambiamento. Ma gli italiani da un leader vogliono sentire altre proposte. La riduzione delle tasse, un intervento sulle pensioni (e non il passo indietro appena varato dal governo) e sullo stato sociale, qualcosa di concreto sulla scuola e sulla università. Peccato che proprio su queste materie Veltroni può dire poco, perché correrebbe il rischio di “disturbare il manovratore”, cioè l’attuale capo del governo, già molto stizzito per il modo con quale si sta procedendo alle primarie del Pd. E allora, ecco venire fuori dal cilindro le proposte istituzionali: ma per quelle non c’è bisogno di eleggere un nuovo capo di un nuovo partito.


Troppa fretta per scarcerare un presunto assassino

luglio 24, 2007

GiornaleDovevano avere molta fretta, i giudici del tribunale dei minorenni di Catania per scarcerare Antonio Filippo Speziale, il giovane indagato per la morte dell’ispettore capo Filippo Raciti. Sono passati appena cinque mesi dagli incidenti allo stadio siciliano, durante il derby Catania- Palermo, e dall’esplosione di quella bomba carta che, ricordiamolo, fu lanciata con il preciso obiettivo di centrare l’agente di polizia. In questi mesi, Speziale ha confessato la sua aggressione, ha ricostruito i fatti avvenuti allo stadio, si è dichiarato pentito per l’accaduto. E ha detto: «Il mio obiettivo non era la polizia, ma i palermitani». Con la sentenza di ieri, il tribunale ha deciso di affidare il ragazzo a una comunità che, per il momento, ancora non è stata individuata. Una comunità, e non la famiglia, perché secondo i magistrati «i genitori di Speziale, seppure consapevoli di avere avuto una condotta educativa incoerente nell’arco degli anni, avendo perdonato alcune intemperanze del figlio, non posseggono la dovuta autorevolezza educativa». Ricapitolando: gli inquirenti sono ancora convinti della colpevolezza di Speziale, ma decidono comunque di liberarlo e, non fidandosi della sua famiglia, aspettano un posto in comunità per poterlo rieducare. C’è in questa sentenza un’esemplare testimonianza del corto circuito Statocittadini- famiglie. Mentre non viene garantita alcuna certezza di fronte a un reato così grave, allo stesso tempo si riconosce perfino la pericolosità sociale dell’imputato e, per redimerlo, ci si affida alla supplenza di una comunità. Il carcere è un luogo orribile e lo Stato non deve mai coltivare l’istinto alla vendetta. Ma in una decisione così rapida, rispetto allo svolgersi dei fatti, è impossibile non intravedere una resa, un’abdicazione delle proprie funzioni, e la ricerca di scorciatoie che lasciano esterrefatti per la loro fragilità. Antonio Filippo Speziale ha tutto il diritto di ricostruirsi una vita, ma il modo peggiore per ricominciare è il pensiero, la convinzione, di essere impunito per il gesto con il quale ha seminato la morte. Anche a casa Raciti ci sono due minorenni, due ragazzini di 15 e 8 anni. E anche loro hanno alcuni sacrosanti diritti. Per esempio, quello di conoscere il nome dell’assassino del padre, di sapere come e perché ha pagato con la vita il suo lavoro di vent’anni al servizio della polizia, dello Stato. E la risposta al loro incredulo dolore non può essere un colpo di spugna pilatesco con il quale, di fatto, un omicidio viene archiviato come un incidente di cronaca.


Veltroni leader. Un annuncio di elezioni anticipate

giugno 28, 2007

Posso sbagliare, ma la coreografica investitura di Walter Veltroni alla guida del Partito democratico darà un’accelerazione a quella che considero la più probabile prospettiva di questa legislatura: il ricorso alle elezioni anticipate. Ci sono almeno tre indizi che, sommati, aumentano le probabilità di uno scioglimento anticipato delle Camere. Il primo indizio riguarda la diarchia Veltroni- Prodi. Non può reggere, per un naturale conflitto di interessi. Il premier può sopravvivere soltanto a colpi di compromessi con l’ala sinistra della sua maggioranza, mentre il leader del Pd ha bisogno, per dare un profilo forte alla sua designazione, di uno strappo in senso riformista. Abilmente, Veltroni ha provato ieri a mettere le mani avanti giurando sintonia con il governo e cercando di comporre le due anime della maggioranza con un’apertura sulla lotta alla flessibilità (tema molto caro alla sinistra radicale) e una esplicita richiesta di intervento sul durissimo scoglio della riforma previdenziale. Quando non sarà più candidato, ma leader, Veltroni non potrà più seguire la tattica del doppio binario. Dovrà scegliere. E necessariamente ogni scelta sarà una scossa per il governo. Non a caso sono rimasti soltanto i prodiani a chiedere primarie vere per eleggere il segretario del Pd e per evitare il plebiscito a favore di Veltroni: cercano così di indebolire, e comunque di condizionare, un’investitura che altrimenti sarebbe un macigno sulla strada di Prodi e del governo. Il secondo indizio riguarda il sistema elettorale, rispetto al quale Veltroni non nasconde la sua simpatia per il modello del “sindaco d’Italia” e della democrazia diretta, e dissimula, solo per cautela, una decisa simpatia per il trauma referendario. Una volta raccolte le firme da parte del comitato, Veltroni si troverà a gestire il passaggio referendario da capo del Partito democratico ed è facile immaginare che chiederà alla sua organizzazione di schierarsi compatta dalla parte del sì. E quello sarà un altro colpo decisivo sul cammino della legislatura. Infine, conta l’umore dell’opinione pubblica. Quanto può durare, in termini di gradimento elettorale, l’effettonovità della nomina di Veltroni? Non certo all’infinito. E a quel punto i democratici si troveranno nella condizione di preferire l’azzardo elettorale a un nuovo logoramento che, partendo dall’impopolarità del governo, colpirebbe innanzitutto il loro partito. Ecco dunque, perché, l’investitura di Veltroni significa elezioni anticipate sempre più probabili: il centrodestra è avvertito.

di Antonio Galdo


Centrodestra. Così proviamo a scrivere la nuova carta

giugno 27, 2007

GiornaleI partiti politici non sono un prodotto di laboratorio: non nascono dall’alto o per imposizione, sulla base di un semplice atto di volontà. Sono il frutto di un processo, spesso lento, di sedimentazione, il punto d’incontro non programmabile a tavolino di interessi sociali diffusi e di un sistema di valori. Sono la sintesi virtuosa tra un gruppo dirigente ideologicamente motivato e un “popolo” disposto a sposarne la causa. Questo per dire che non basterà scrivere uno statuto o elaborare un modello organizzativo, per quanto originale e sofisticato, per vedere nascere, in modo automatico, il Partito delle Libertà. Ma non ci si può nemmeno aspettare, come qualcuno nel centrodestra crede, che le cose accadano da sé, per inerzia o per caso. E nemmeno ci si può ridurre a cambiare solo perché costretti dalle contingenze esterne o dall’altrui capacità di innovazione: ad esempio dall’accelerazione impressa alla nascita, intorno alla leadership di Walter Veltroni, del Partito democratico. Ecco dunque spiegata l’importanza dell’iniziativa che quest’oggi verrà presentata a Roma: l’insediamento di una commissione di studio (già ribattezzato “gruppo dei trenta”) incaricata di discutere, elaborare e proporre un modello di “partito unitario del centrodestra” che sia, innanzitutto, all’altezza delle trasformazioni che hanno investito la politica nell’ultimo quindicennio, in Italia come nel resto del mondo. Le diverse varianti del partito novecentesco (da quello ideologico di massa a quello elettoraleprofessionale) hanno fatto il loro tempo o sono entrati in crisi. Si tratta dunque di capire quale sia il modello di organizzazione degli interessi, della militanza e del consenso elettorale più adatto al XXI secolo, segnato dal tramonto irreversibile delle ideologie e dalla pervasività dei nuovi sistemi di comunicazione digitale. Di immaginare la costituzione di un partito capace di ricostruire il rapporto tra cittadini e Stato, di esercitare una rappresentanza effettiva e di selezioni gruppi dirigenti: tutto ciò come sbocco all’infinita transizione italiana ma anche come occasione di rilancio per l’esperienza della Casa delle Libertà. Una sfida culturale, prima che politica, alla quale le forze che rappresentano i moderati italiani non possono più sottrarsi. Non è un caso, dunque, che a promuovere l’iniziativa – sotto il motto “Un nuovo partito per una nuova politica” – siano tre fondazioni: Liberal, Farefuturo e Craxi, in rappresentanza delle principali anime politico-culturali del centrodestra. Il loro tentativo non sarà facile, ma se condotto con rigore e libertà intellettuale potrebbe determinare risultati importanti per l’intera scena politica italiana.

di Alessandro Campi 


Così hanno sfiduciato Tps

giugno 26, 2007

GiornaleUn accordo, alla fine, si troverà. La corda è già molto tesa, il rischio di un corto circuito finale con il Paese trascinato alle urne aumenta di giorno in giorno, e nessuno ha una soluzione a portata di mano per evitare le elezioni anticipate nel caso che il governo Prodi dovesse cadere. Ecco perché sulle pensioni ci sarà il compromesso che scontenta tutti. Innanzitutto gli italiani. Che si ritrovano con importanti, e impreviste, risorse investite per assecondare i sindacati, e senza uno straccio di intervento per quelle fasce sociali che non sono protette da Cgil, Cisl e Uil. I poveri outsider. Continueremo così ad avere la spesa previdenziale più alta d’Europa, insostenibile con gli attuali tassi di crescita demografica, e continueremo a consentirci il lusso di mandare in pensioni lavoratori non usurati, ancora cinquantenni. Gente che poi viene riassunta dalle aziende, talvolta in nero, creando così un tappo, a danno delle giovani generazioni, all’ingresso del mercato del lavoro. Il vero sconfitto da questa estenuante trattativa è il ministro Tommaso Padoa-Schioppa, il parafulmine di ogni protesta all’interno della maggioranza. Il suo dicastero è diventato una buca per le lettere. Prima i quattro ministri della sinistra massimalista, poi un gruppo di senatori dell’Unione, e, a giorni alterni, l’eterno Clemente Mastella e i dirigenti della Margherita. Ognuno pronto a tirare la coperta dalla sua parte, in un governo che non riesce a tenere la barra diritta e continua a sopravvivere a colpi di infinite mediazioni. In queste condizioni, la presenza di Tommaso Padoa- Schioppa al governo è diventata perfino ingombrante, e non possiamo escludere che il ministro ne prenda atto già nei prossimi giorni. Il suo disagio, il suo isolamento, non sono i frutti avvelenati di qualche capriccio, ma rappresentano il segnale dell’impotenza di una maggioranza che non ha mai sciolto il nodo della sua ragione sociale, del come vuole governare l’Italia. Ancora poche ore e avremo in campo il nuovo leader del Partito democratico, il Walter Veltroni invocato come l’uomo della Provvidenza che dovrà rapidamente fare una scelta tra l’ecumenismo parolaio e un netto profilo riformista della sua guida. Ovviamente, c’è da augurarsi che Veltroni imbocchi la seconda strada, ma in questo caso la sua leadership entrerà in rotta di collisione con il governo e con la minoranza estremista che lo condiziona in ogni decisione. E sarà chiara, a quel punto, l’impossibilità di sfidare la legge di gravità della politica. Con un leader forte, decisamente orientato sul versante riformista, la fine del governo Prodi sarà solo una questione di giorni, se non di ore.


Ma perchè Casini non scioglie l’Udc?

giugno 21, 2007

Ogni volta che sento parlare Pier Ferdinando Casini, penso sempre la stessa cosa: «Ha ragione». Riforme istituzionali, liberalizzazioni, concorrenza, stato Sociale, previdenza. Ruolo dei cattolici in politica. Sul piano dell’agenda, quella dell’Udc è sicuramente la più completa, la più adatta ai moderati rivoluzionari che sognano una modernizzazione possibile del Paese e non inseguono ricette liberiste già superate e revisionate nei paesi anglosassoni. Poi, quando vedo la traduzione delle proposte in atti concreti, mi cascano le braccia. Se il governo del centrodestra non ha realizzato il suo programma, e non ha mantenuto gli impegni con gli elettori, è anche colpa dell’Udc, sempre pronta, in Parlamento, a dare una sponda alle resistenze corporative dell’Italia feudale. E il fatto che il suo leader, in quella stagione, avesse un ruolo istituzionale, non toglie nulla alle responsabilità di un partito che non ha lasciato un segno, se non attraverso la sua interdizione, nella precedente legislatura. Certo: contano i rapporti di forza. E qui siamo di fronte al primo problema, perché le ambizioni dell’Udc, dei moderati, diventano velleità con un minipartito del 6-7 per cento, la cui forza elettorale è concentrata in due regioni, la Sicilia e il Lazio. Una volta scartata l’ipotesi del partito unico con Berlusconi e Fini, e una volta chiarita con fermezza la collocazione nell’area del centrodestra, l’Udc ha una sola strada da percorrere per dare uno sbocco al suo ruolo. Sciogliersi. Chiudere la parentesi, pure necessaria, di una piccola forza politica di natura post democristiana e aprirsi, in mare aperto, per giocare una partita più grande. Un nuovo partito, punto di convergenza di piccole forze già in campo ma innanzitutto calamita di quanti oggi sono fuori dal perimetro della politica, deve nascere con un atto costituente forte. Riconoscibile. Per esempio, un appellomanifesto dei moderati italiani, sottoscritto da personalità più diverse possibile, con un’idea complessiva per governare il Paese. Soltanto così sarà possibile coinvolgere gente come Mario Monti, Savino Pezzotta, e domani, chissà, Luca di Montezemolo. Personaggi che non possono considerare una sponda, un approdo, un partito piccolo quanto circoscritto nella sua identità come l’Udc. Solo così all’universo insofferente dei cattolici verrà data un’opportunità alternativa all’asfittico Partito democratico dove i cattolici al massimo si eserciteranno nella testimonianza. La scommessa dello scioglimento, per allargarsi e non per scomparire, è molto rischiosa, inutile nasconderlo. Ma è l’unica che può consentire di mettere in discussione i rapporti di forza all’interno del centrodestra. Trascinando, invece, una leadership tra un salotto televisivo e un duetto canoro con Fiorello, si può conquistare popolarità per un percorso personale, non certo per un grande progetto politico.


Senza uno strappo l’Europa non cammina

giugno 20, 2007

GiornaleDoveva essere il vertice del rilancio dell’Europa: quello che avrebbe resuscitato la Costituzione impallinata dai due “no” dei referendum in Francia e in Olanda nell’ormai lontano 2005. Rischia, invece, di marcare un’altra sconfitta e di risolversi con l’ennesimo rinvio. Alla vigilia del Consiglio che riunirà, da domani, a Bruxelles i leader dei 27 Paesi dell’Unione, il barometro segna tempesta. Nemmeno l’abilità diplomatica di Angela Merkel, presidente di turno della Ue, è riuscita a cucire un’intesa di massima sul documento che circola da qualche giorno tra le capitali. Le ragioni sono tante. C’è Tony Blair, alla sua ultima uscita da premier britannico, che non vuole arretrare dalla tradizionale “linea rossa” di Londra – nessun condizionamento sulla politica estera, nessuna estensione del voto a maggioranza – perché sa che tutto quello che potrebbe concedere, magari in cambio della futura designazione a primo “presidente europeo”, finirebbe per rovesciarsi sulle già incerte fortune politiche di Gordon Brown, il suo successore designato, che sarebbe poi costretto a difendere un Trattato costituzionale troppo eurocentrico in un referendum che potrebbe segnare la sua sconfitta interna. E c’è la Polonia dei gemelli nazionalisti Kaczynski (Lech, presidente della Repubblica e Jaroslaw, primo ministro) che non vuole mollare sul nuovo sistema di voto che, valutando anche il numero degli abitanti di ciascun Paese, toglierebbe una parte di potere contrattuale a Varsavia. C’è perfino l’Olanda che vorrebbe marcare il primato dei Parlamenti nazionali su quello europeo. C’è Nicolas Sarkozy che non ha partecipato a tutta la fase preparatoria di questo appuntamento e adesso preferisce tenersi al riparo da un fallimento negoziale. Anche perché, tra un anno, dopo due presidenze semestrali deboli come la slovena e la portoghese, capiterà proprio alla Francia l’occasione di salvare l’Europa in tempo per la scadenza del 2009 fissata per mettersi d’accordo sul nuovo Trattato. In mezzo ci sarà l’inevitabile compromesso di facciata al vertice di Bruxelles, ci sarà forse la convocazione di una mini-conferenza intergovernativa per rimettere tutti attorno a un tavolo. Ieri, con un tempismo esemplare, è stato anche diffuso un eurobarometro che rivela come i cittadini dei Ventisette hanno ancora fiducia. Anzi, si aspettano più Europa. Ma finché non si ritroverà un nucleo capace di spingere in una direzione certa, saranno sempre i particolarismi a vincere e a frenare la marcia. Se nel vertice di domani si cominciasse almeno a intravvedere una nuova “locomotiva” europea, sarebbe già un successo. Altrimenti dovremo rassegnarci a un’altra traversata del deserto.

di  Enrico Singer


Noi intercettiamo loro comprano

giugno 19, 2007

GiornaleChe potenza smisurata. Che rete impressionante di rapporti, intrecci telefonate. C’è Ricucci che parla con Latorre e vuole la tessera. C’è D’Alema che parla con Consorte e si fa prendere dall’entusiasmo. C’è Fassino che s’informa perché deve incontrare Abete. C’è Fiorani che parla con tutti e ci mette i quattrini. C’è Fazio che non parla, ma c’è. O se parla lo fa a tarda notte. C’è Sacchetti, perché senza di lui il roccioso compagno Consorte si sente perduto. E poi c’è Gnutti da Brescia e Grillo da La Spezia. Tutto un gran giro di telefonate, di allusioni, di incoraggiamenti. E c’è Billé. E Caltagirone naturalmente, perché non sia mai che lo si lascia fuori. E c’è Rovati che parla con Ricucci per conto di Prodi. E c’è Comincioli che parla con Ricucci per conto di Berlusconi. Tutti cercano tutti, parlano con tutti, telefonano a destra e a manca. Furbi, furbissimi sembrano. Entrano di nascosto in Banca d’Italia (Fiorani) o si fanno scudo con schede telefoniche dei paesi più diversi. Usano prestanome o fanno leva sui più arditi strumenti finanziari. Scalano di qua, scalano di là. E poi mica ci sono solo gli italiani. Mica vorremo pensare che si tratta di una robetta provinciale, signori miei. A no che non la si può metter così. Ecco allora spuntare lo spagnolo Agag, in contatto con Livolsi. Ecco allora il francese Lagardère, che è addirittura amico del nuovo presidente Sarkozy. Insomma un gran bel pacchetto di mischia, forte di agganci con la politica al livello più alto, forte di un sacco di soldi a disposizione, forte di un piano coi fiocchi. E soprattutto forte di un convincimento comune, di un spirito conquistatore, di una gioiosa complicità. “Era tutto un ciao Piero, ciao Massimo”, sintetizza il nostro oracolo Ricucci. Gioiosa complicità assai necessaria, perché la partita è rischiosa. Ci si può perdere il posto, anche se fai il governatore della Banca Centrale. Ci puoi finire in galera, anche se sei una stella nascente della finanza. Insomma un “Gioco Grande” per cavalieri senza macchia e senza paura. Un gioco talmente grande, talmente complesso, così ben riuscito che se ne guardi i risultati sei tramortito dalla loro evidenza. Vedi allora che due anni fa Banca Antonveneta era italiana ed ora è olandese. BNL era italiane ed ora è francese. Addirittura Telecom era italiana ed ora è (quasi) spagnola. Forse qualcosa non torna nel Gioco Grande. Ma no, ma no. È solo un’impressione. Sarà il caldo. Inizia l’estate. Vamos a la playa.

di Roberto Arditti


Ma il centrodestra si è accorto di Savino Pezzota?

giugno 14, 2007

GiornaleMi chiedo, in tutta franchezza, se i nostri leader del centrodestra abbiano veramente capito qualcosa del Family Day e di Savino Pezzotta (qui l’intervista rilasciata al nostro quotidiano). La manifestazione di piazza san Giovanni ha rappresentato il fatto politico più importante di questi ultimi mesi, altro che la stucchevole discussione su capi e capetti della ex casa delle Libertà. È venuto fuori, con una fortissima spinta popolare, tutto il malumore dei cattolici nei confronti del governo e della maggioranza, la frattura che si è aperta tra il centrosinistra e l’universo delle associazioni. Roba seria. Allo stesso tempo, un uomo rigoroso, di alto profilo, con una storia alle spalle (la guida della Cisl vi dice qualcosa?), cioè Savino Pezzotta, portavoce del Family Day, prende le distanze dal Partito democratico. Lo boccia senza se e senza ma, si dichiara estraneo a questa asfittica alchimia di gruppi dirigenti e annuncia di “stare sul fiume”. Non solo: Pezzotta ci fa sapere che non intende iscriversi al Partito democratico, e quindi è fuori dalla casa comune di Ds e Dl. Le due cose, gli umori di una piazza e la severa critica di un leader, si tengono, perché provengono dallo stesso mondo, ne misurano la stessa temperatura, gli stessi problemi.. A questo punto, che cosa ti saresti aspettato dal centrodestra? Un’apertura, segnali concreti, proposte per la famiglia. Un’iniziativa politica. E invece, niente. Berlusconi, Fini e Casini hanno fatto la loro sfilata a piazza San Giovanni, incassando il magro dividendo di un giorno, si sono divisi equamente microfoni e dichiarazioni. Poi nulla, un silenzio tombale. Nel frattempo Pezzotta va per la sua strada e prova a mettere in piedi un movimento “parapolitico” che dia voce e rappresentanza ai cattolici. Gira l’Italia, verifica sul campo quali spazi ci sono al di fuori della pura testimonianza che gli ex popolari si sono ritagliati all’interno del Pd. E i dirigenti della Margherita, leggete oggi l’intervista della nostra Susanna Turco con il ministro Giuseppe Fioroni, corteggiano l’ex segretario nazionale della Cisl. Loro, insomma, fanno politica. E noi stiamo a guardare.