A Pechino prima le olimpiadi e poi (forse) la rivoluzione

giugno 12, 2007

Italo CucciIl 4 giugno scorso, nel diciottesimo anniversario della strage di Piazza Tienanmen, ha ripreso vigore la protesta internazionale contro i Giochi Olimpici di Pechino 2008. Tutti hanno ricordato l’immagine di quello Studente Ignoto che avanza coraggiosamente contro i carri armati inviati da Deng Xiaoping e le centinaia (forse migliaia) di vittime della repressione, in maggioranza studenti. L’invito a boicottare l’Olimpiade cinese vengono soprattutto dagli intellettuali – spesso progressisti – abituati a scoprire le nefandezze del regime comunista cinese (come di altre spietate dittature) soprattutto in occasione di eventi sportivi. I fitti rapporti economicofinanziari fra i Paesi dell’Occidente e il colosso asiatico, sottolineati da missioni governative o diplomatiche guidate da capi di stato pieni di riverente ammirazione per gli abili statisti di Pechino, non suscitano scandalo. E viene seguita con avarissima attenzione l’annosa sfida della Chiesa cattolica alle prevaricazioni del regime in ambito religioso. Tutti i rapporti d’interesse, tutti gli intrallazzi commerciali, tutte le illegalità – a volte aberranti come l’uso su larga scala della pena di morte, gli infanticidi e l’assenza di elementari diritti civili – vengono tollerati. L’idea di Pechino 2008 no. E invece basterebbe conoscere la storia dello sport degli ultimi decenni per rendersi conto – come ho già avuto modo di scrivere – che solo i grandi eventi sportivi universali possono costituire un deterrente all’avanzata delle diatture più o meno travestite. Parlai infatti, settimane fa, dello Sport come grande esportatore di democrazia. Ho prove in abbondanza di quanto dico, ma mi basta citare un paio di eventi storici, i Mondiali di Argentina ‘78 e l’Olimpiade di Mosca ‘80, per asserire che lo sport è il più pericoloso nemico dei regimi totalitari. Jorge Rafael Videla e i generali argentini giunsero ad ottenere un clamoroso trionfo vincendo il “loro” Mondiale, ma dal giorno dopo la preziosa conquista sbandierata come frutto della Rinascita guidata dai militari, l’infiltrazione “nemica” – grazie soprattutto all’informazione planetaria provocata dall’evento – iniziò il percorso che li portò alla defenestrazione. Tutto cominciò un giorno del giugno ‘78 in Plaza de Mayo – io c’ero – quando giornalisti di tutto il mondo, pur con grave ritardo rispetto alle denunce dei perseguitati – poterono assistere alle sfilate delle Madri Piangenti dei desaparecidos. Io stesso, che avevo sostenuto la candidatura dell’Argentina dei generali – d’altra parte l’Italia aveva scarsi titoli per accusare gli argentini: alla vigilia del Mondiale a Roma era stato ucciso Aldo Moro – mi trovai a testimoniare l’infinita pena di quella gente disperata con articoli che nel 1998 dopo furono ripresi da un periodico progressista di Buenos Aires, la Semana, nelle celebrazioni del ventennale dell’evento che aveva segnato la resistibile ascesa della giunta Videla. Per lo stesso motivo – ovvero l’irrefrenabile spinta dei mezzi d’informazione presenti in dosi massicce come mai prima – e in misura ancora più grande, vista la polemica aperta dalla rinuncia degli Stati Uniti a partecipare ai Giochi – la trionfalistica Olimpiade di Mosca ‘80 di Breznev e compagni si trasformò in un micidiale boomerang. Bene fece allora l’Italia – e fu una decisione intelligente che va attribuita, e sottolineata perché rara, se non unica, a Franco Carraro allora presidente del Coni – a inviare i suoi atleti a Mosca, in disaccordo con il diktat americano: la nostra diplomazia “sportiva” ottenne risultati superiori a quelli sportivi proprio nei giorni in cui anche il nostro Paese viveva una situazione destabilizzata, sottolineata dalla strage della stazione di Bologna. Tutti vedemmo cos’era l’Unione Sovietica nella sua realtà di regime dittatoriale e potemmo raccontare all’Occidente i dettagli della povera vita quotidiana dei moscoviti privi di libertà: per tutto un mese funzionarono i telefoni intercontinentali, le televisioni e i giornali poterono rivelare i misteri dell’Impero Rosso. Anche i numerosi giornalisti militanti a sinistra, abituati a cantar le lodi del Paradiso Sovietico, dovettero testimoniare il più che precario stato delle libertà civili mal celato dai fasti sportivi. Anche perché l’arroganza dei signori del Kremlino non era riuscita spesso a contenersi e ad assecondare la recita delle virtù linerali al servizio dell’Olimpiade: proprio in quei giorni – come la scorsa settimana – una delegazione di radicali e omosessuali fu accolta all’aeroporto di Sheremetievo da agenti che abbandoarono in violenze e sevizie. Di lì a un anno, tornato a Mosca e Leningrado per un reportage sul dopo Olimpiade, scoprii ch’era tornato anche il coprifuoco. Ma pochi mesi dopo già davano frutti i semi della glasnost e della perestroika. L’Olimpiade aveva fatto crescere la voglia di democrazia. Così sarà a Pechino, ne sono certo. I Giochi abbatteranno le ultime barriere. Non a caso potei, alla fine del 1981, viaggiare in lungo e in largo per la Cina, da Pechino a Shangai a Canton, per soddisfare la curiosità dei cinesi che mi organizzarono una serie di incontri con giornalisti e tecnici interessati a conoscere le mode e i modi dello sport occidentale. Potei dare il mio piccolo contributo a un’organizzazione che limitava l’attività sportiva a parate giovanili di stampo fascista senza curare l’aspetto del gioco di squadra agonistico. Nell’Ottantadue potei mostrare in Spagna ai maggiori rappresentanti dello sport cinese guidati da un intelligente funzionario, il dottor Cheng Chen Da, le bellezze del calcio. Tifarono per l’Italia e ne ebbero soddisfazione. Dove cresce lo sport cresce inevitabilmente il senso della libertà. Ci ricorderemo di dedicare l’Olimpiade di Pechino ai ragazzi della piazza Tienanmen: se si faranno per i tanti giovani che vogliono confrontarsi con i coetanei di tutto il mondo, sarà anche merito loro.