Calcio e politica. Da Mussolini a Veltroni passando per Spadolini

Maggio 21, 2007

Italo CucciIl Millenovecentottantadue fu un anno straordinario per il calcio italiano. Direi l’Anno della Patria. La Nazionale vinse il Mondiale di calcio e risvegliò gli italici dormienti che tirarono fuori dalle soffitte le bandiere tricolori e saccheggiarono i negozi di stoffe per confezionarsene di nuove. Giovanni Spadolini, presidente del Consiglio, che aveva in sommo disprezzo il gioco del pallone (fui suo redattore sportivo al “Resto del Carlino”, e lo so bene) ancor prima della storica finale di Madrid s’affacciò al balcone di Palazzo Chigi brandendo mussolinianamente un tricolore e la folla mancò poco che gli gridasse “duce duce”. Poi partì per la Spagna. Lo ricevemmo a Barcellona nelle ore di Italia-Polonia, vincemmo ancora e gli consentimmo di sentirsi portafortuna (il Prof. Di Storia Patria era superstizioso assai, come rivela la sua frequentazione di Gustavo Rol). Ma sul più bello – mentre Ezio Luzzi gli sbatteva sotto il naso un Nagra, “presidente ci dica ci dica” – fu richiamato in patria dal Capo dello Stato: “Alla finale ci sarò io”, disse Pertini. E fu il trionfo del Presidente che al gol “urlato” di Tardelli contro i tedeschi balzò in piedi e improvvisò un saltarello davanti all’attonito cancelliere tedesco Helmut Schmidt (guarda caso subito sostituito da Helmut Kohl) e al divertito Juan Carlos di Borbone, Re di Spagna per volontà di Francisco Franco e Cittadino di Roma per nascita. Calcio e politica, una storia iniziata nel 1934, quando Vittorio Pozzo consegnò al Cavalier benito Mussolini la prima Coppa Rimet e gli aprì le porte del Nuovo Mondo del Pallone, consacrato valore patrio nel 1936, con la vittoria all’Olimpiade hitleriana di Berlino, e nel 1938, seconda Coppa vinta alla faccia dei francesi e dei “fuoriusciti” schiantati da una Nazionale in maglia nera. In quel formidabile 1982 conobbi il giovanissimo Walter Veltroni, ventisettenne astro nascente del Partito Comunista Italiano, juventino confesso, calciofilo impegnato, autore per Savelli Editore de “Il calcio è una scienza da amare – 38 dichiarazioni d’amore al gioco più bello del mondo” (la prima firmata Giulio Andreotti) che ne segnalò l’attenzione all’italico costume pallonaro dopo che il suo primo libro, “Il sogno degli anni Sessanta” (intervistò, fra gli altri, Gianni Morandi, Giuliano Ferrara e Renato Nicolini), aveva rivelato la sua “leggerezza” dieci anni dopo ribattezzata “veltronismo”. Walter allora s’allargò nel cinema, nella televisione e ancora nel calcio quando da direttore dell’Unità regalò ai comunisti ormai allo sbando ideologico la collezione degli albi “Panini” delle figurine dei pedatori. Dopo quel trionfo spagnolo, Walter mi chiamò per invitarmi alla Festa nazionale dell’Unità a Pisa. Nel pomeriggio era in programma un dibattito sui Mondiali, la sera un concerto dei Pink Floyd. I compagni facevano ancora cose straordinarie. Dirigevo il “Guerin Sportivo”, duecentomila copie di Sport & Musica, pane dei ventenni/trentenni d’allora, e accolsi felice l’invito. Fu un’occasione bellissima, un bagno di folla. Walter era raggiante e si mostrò con me molto gentile. Soprattutto quando, all’ora del dibattito, s’alzò uno spettatore e mi apostrofò “compagno Cucci”. “Diciamo semplicemente Cucci”, precisò Walter per togliermi dall’imbarazzo. Abile appassionato dialettico, signore nel porgere, demagogico quanto basta, brillante, entusiasta, vagamente commosso e commovente. Con gli altri colleghi presenti al dibattito (il più in vista Ezio De Cesari, il mitico “Triglione” del Corriere dello Sport) arrivammo presto a una conclusione: “Questo ragazzo farà carriera”. E non sbagliammo. Cinque anni dopo era deputato del PCI, dieci anni dopo direttore dell’Unità, nel ‘96 vicepresidente del Consiglio e ministro dei Beni Culturali (e dello sport) nel Governo Prodi. Il calcio portato al popolo – per chi non lo sapesse – è un eccezionale test di comunicazione. Mentre si consolidava il successo politico del giovane pugnochiuso, cresceva la sua fama juventina che avrebbe toccato l’apice nel 1997, centenario della Vecchia Signora, quando Casa Agnelli lo sventolò come una bandiera che da rossa trascolorava in rosa. A quel punto, tuttavia, ci eravamo se non persi almeno allontanati. Anche perché, da ministro, avrebbe prodotto una riforma esiziale per il calcio: la trasformazione delle Società Sportive in SpA con fine di lucro e il conseguente accesso di alcune società (Juve, Roma e Lazio) alla quotazione in Borsa, un obbrobrio che – contro l’ispirazione deamicisiana del calciofilo Walter – avrebbe varato il Calciobusiness, i crolli di Cragnotti, Cecchi Gori e Tanzi e, più tardi, in conseguenza del folle disegno riformatore, prima la prepotente assegnazione dei proventi della paytivù ai grandi club, pochi spiccioli ai poveracci, e la vergogna di Calciopoli. So quanto tutto ciò addolorò Walter, le cui intenzioni erano serie. E infatti ne avremmo presto registrato la progressiva trasformazione da apprendista stregone a efficace uomo di sport. Diventato sindaco di Roma nel 2002, attenuò i toni da supertifoso juventino avvicinandosi al calcio romano e agli altri sport, conquistando eventi di prima grandezza per la Capitale mentre Rutelli aveva “bucato” l’Olimpiade di Roma 2004. Oggi, presidente onorario della Lega Basket, sogna di portare a Roma la finale dell’Eurolega del 2010. L’avventura di sindaco sta per concludersi, sarebbe bello vederlo alle prese con il rinnovamento del movimento calcistico e delle politiche sportive. O semplicemente consigliere di Giovanna Melandri, ora che ha imparato il gioco. Ma temo che la ministro dello sport, nonostante Cardiff, voglia continuare a sbagliare da sola.