Via gli ascensori della vergogna dal vittoriano!

ottobre 19, 2007

Vittoriano_ascensoriA: Al ministro dei Beni Culturali Francesco Rutelli

Rivolgiamo al ministro dei Beni Culturali Francesco Rutelli un appello affinché faccia rimuovere gli ascensori panoramici che stanno sfregiando l’Altare della Patria, sacrario della nazione e simbolo dell’unità.

Carlo Ripa di Meana, Alberto Asor Rosa, Vittorio Sgarbi ma anche personalità politiche come Paolo Brutti e Giorgia Meloni. Sono alcuni dei nomi che hanno aderito all’appello che il quotidiano l’Indipendente ha lanciato per chiedere al ministro dei Beni culturali Francesco Rutelli l’immediata rimozione degli ascensori panoramici dall’Altare della Patria. Ascensori che, secondo l’Indipendente, stanno sfregiando il monumento simbolo dell’unità nazionale. Tra gli altri firmatari anche:

Carlo Ripa di Meana

Giulio Andreaotti
Alberto Asor Rosa
Paolo Brutti
Italo Cucci
Andrea Emiliani
Vittorio Emiliani
Oscar Giannino
Alessandro Giuli
Giorgia Meloni
Giulio Meotti
Enrico Montanari
Gian Enrico Rusconi
Vittorio Sgarbi
Marco Travaglio
Duccio Trombadori

FIRMA LA PETIZIONE

Se vuoi partecipare con noi a questa campagna inserisci la gif nel tuo sito o nel tuo blog. Per farlo copia il seguente codice e inseriscilo nell’html della tua pagina o in un widget

<a href=”http://www.firmiamo.it/viagliascensoridalvittoriano”><img src=”http://www.indipendenteonline.it/kitgif/vittoriano_lil.gif”></a&gt;


Mastella & Co. è ora di scoprire la sobrietà

settembre 17, 2007

Speriamo che si la volta buona. Speriamo cioè che la pessima figura fatta dai ministri Mastella e Rutelli, in missione con l’aereo di Stato per vedere il Gran Premio di Formula 1 a Monza (al netto della opinabile missione “istituzionale” per premiare i primi tre classificati), segni un punto di non ritorno. La classe politica dovrebbe decidersi una volta per tutte a fare i conti con una virtù troppo spesso calpestata nel nostro Paese: la sobrietà. Non si tratta di un’astratta battaglia da gentiluomini dell’800, sia chiaro. Si tratta anzi della battaglia più moderna che si possa immaginare, perché è la battaglia per una politica più trasparente e più vicina alla gente, che vuol dire una cosa sola: i politici, tutti, debbono avere abitudini di vita il meno diverse possibile dai cittadini normali. Sobrietà vuole dire guardare in faccia i problemi per conoscerli e risolverli. Non come accade spesso dalle nostre parti, dove l’esame dei problemi serve ai politici per dare vita alle loro polemiche. Emblematico in questo, ma in negativo, è l’intervento di Calderoli sulle Moschee. Invece di uscirsene con provocazioni che servono solo a scaldare gli animi e (forse) ad acchiappare qualche voto, si provi a fare uno sforzo più concreto, ad esempio ponendosi il problema di quello che succede dentro le moschee, anziché tuonare goffamente e volgarmente contro la loro edificazione. Sobrietà vuole dire intendersi una volta per tutte sul concetto di sicurezza, che viene sempre sbandierato a tutela di molti privilegi della classe politica. Di governo e non solo, in verità. Qualcuno è in grado di spiegarci perché il volo di linea è insicuro, per un ministro e per gli altri passeggeri, mentre i box di un Gran Premio non lo sono? Un elementare uso della logica consente di ammettere che è assai più sicuro il volo, poiché dei passeggeri si conosce nome e cognome. Inoltre essi si trovano in un contesto del tutto privo di oggetti di offesa, mentre così non è ai box della Formula 1. Sobrietà vuol dire prendere il treno anziché l’elicottero o l’aereo. Lo ha fatto in settimana il governatore Draghi per spostarsi da Brescia a Milano, lo ha fatto ieri il Presidente Prodi per tornare a Bologna. Hanno fatto bene, anzi benissimo. Ma noi vorremmo vivere in un Paese in cui questi comportamenti fossero la norma, non l’eccezione. Un Paese nel quale la macchina di servizio, gigantesca e blindata, sia davvero a disposizione di chi corre reali pericoli, anziché funzionare da volgare status symbol. Domanda finale. Chi è il marziano? Chi si pone questi interrogativi, o chi se ne frega?

di Roberto Arditti


Perchè i master universitari non servono a niente

aprile 25, 2007

Ma servono davvero, in Italia, i master universitari? Di certo rappresentano una fabbrica della formazione in continua crescita, in termini di fatturato e di addetti. Soltanto nell’ultimo anno, infatti, ne sono stati organizzati oltre duemila (quasi la metà alla prima edizione) per circa quarantamila studenti e con le generose sponsorizzazioni di 3500 aziende. Macchine da soldi, insomma, con un fatturato che, secondo le indagini del Censis, supera i 180 milioni di euro. Stessa musica per i professori reclutati con i master: sono ormai un esercito di 34mila docenti, in gran parte universitari che arrotondano gli stipendi, praticamente uno per ogni studente che in media spende 4800 euro per la sua iscrizione. Fin qui il gigantesco giro d’affari che copre, come un lenzuolo, l’universo dei master universitari. E i vantaggi, in termini di occupazione, per gli iscritti? Pochi, pochissimi. Un’indagine di AlmaLaurea, Osservatorio Statistico dell’Università di Bologna nato nel 1994, dimostra infatti che «non si registrano differenze significative tra coloro che hanno terminato un master rispetto ai colleghi che non hanno concluso un’ esperienza analoga». Ma se i master fuori ateneo non servono a nulla, valgono poco anche quelli universitari. A cinque anni dalla laurea, quelli che ne hanno frequentato uno di primo livello, registrano una percentuale di occupazione pari all’ 88 per cento. Appena tre punti in più di chi ne ha fatto a meno. Il vantaggio occupazionale scende invece a due punti di differenza per i master di secondo livello. La situazione è addirittura paradossale se poi si considera la stabilità lavorativa, che «risulta addirittura più ridotta tra i laureati che hanno frequentato un qualunque tipo di master rispetto a quella raggiunta dai laureati privi di tale esperienza». Chi ha fatto un master trova un lavoro stabile nel 59 per cento dei casi. Chi si è accontentato della laurea nel 74 per cento dei casi. E per giunta guadagna 17 euro in più: 1320 euro mensili contro 1303. Se ci si limita ai corsi di formazione di primo livello, la differenza in busta paga sale ancora di più. I laureati semplici sopravanzano i “masterizzati” di 65 euro. Dati confortanti, visto che il rapporto di Almalaurea sottolinea che i corsi post-laurea, oltre a essere inutili, sono anche discriminatori: hanno la possibilità di accedervi solo il 9 per cento di studenti disagiati, mentre il resto dei posti a disposizione, di pari passo con l’eccellenza e il costo, è appannaggio di giovani molto facoltosi. I master sono insomma un grande bluff, di cui il professore della Iulm Mauro Pecchenino spiega il gioco: «Le università italiane ormai sono aziende. E le aziende devono vendersi. Il master è un prodotto. Né più né meno che la maionese».