Ecco come il Milan fa vincere le elezioni

giugno 5, 2007

Italo CucciPassata è la tempesta, odo Inzaghi far festa. Inzaghi e Ancelotti. Pippo detto Superpippo torna gongolante nella Nazionale di Donadoni, riconquista quella maglia che lo ha fatto diventare Campione del Mondo anche se Lippi gli ha consentito una sola entrata di mezzora e un solo gol, alla Cekia. Perché – mi rivelano – in ritiro parlava troppo con i giornalisti che invece il citì teneva alla larga con parole acconce («mi avete rotto i coglioni») che naturalmente molti sognavano di rimandargli come frecce avvelenate a cacciata avvenuta; e invece fummo campioni e la rabbia dei criticonzi soffocò nella strozza e si trasformò in sorrisi e leccalecca. Carlo riceve in dono un sontuoso rinnovo di contratto alla guida del Milan fino al 30 giugno 2010 che vuol dire ‘stai con noi fino al prossimo Mondiale, in Sudafrica, eppoi l’agognata panchina azzurra sarà tua come fu di Sacchi quando decidemmo la rivoluzione’. È facile vedere, dietro questi episodi all’apparenza abbastanza casuali, l’abile e consacrata strategia berlusconiana. Son bastate poche mosse e il Cavaliere è tornato ad esser leader del calcio italiano. Un ex milanista – Donadoni – alla guida dell’Italia pallonara, un ex milanista – Albertini – alla vicepresidenza della Federcalcio, un Milan europeo che monetizza la vittoria di Atene incassando fra tappe e gran finale un centinaio di euromilioni, tanti quanti il consiglio d’amministrazione della Juventus ha deciso di investire nella quadratura finanziaria e tecnica del club tornato in Serie A, mentre a quelli Berlusconi potrà aggiungerne forse altrettanti per realizzare uno squadrone da far impallidire anche l’Inter miliardaria di Moratti. Tutto questo perché il Cavaliere adora il Milan, e non solo calcisticamente. Come nel lontano 1994 la squadra rossonera l’ha aiutato ANCHE a vincere le elezioni. Strano che se le siano dimenticate tutti, le esternazioni ateniesi di Berlusconi: aveva preannunciato eppoi confermato le conseguenze politiche della conquista della Coppacampioni, ma per l’occasione nessuno l’aveva preso sul serio, qualcuno l’aveva sfottuto, eppur la storia s’è ripetuta. Quel capolavoro calcistico offerto in diretta tivù a circa sedici milioni d’italiani, quei caroselli festosi per le vie di Milano, e le prime pagine dei giornali, il sontuoso ritorno mediatico son serviti alla causa della CdL molto più di quanto sian servite all’Unione le promesse di Prodi al minifamily day della Bindi e l’aumento di 101 euro agli statali arrivato troppo tardi. L’incrocio calcistico/politico è sfuggito ai più attenti osservatori: forse smemorati, forse per snobismo, gli è mancato il ricordo della Discesa in Campo preparata – e sostenuta – con una inesorabile marcia vittoriosa del Milan. Oggi la Guida Sicura – e avvertita dal Capo – si chiama Carlo Ancelotti. Ieri si chiamava Fabio Capello, non a caso ribattezzato – per amore e per odio, in Italia e Spagna – il Caudillo. O Fabio Massimo. A Capello, all’inizio dei Novanta, Berlusconi aveva offerto l’apprendistato alla scuola di Mediaset. Prima un avviamento da manager, poi un ruolo da opinionista in tivù, infine la panchina del Milan. Dalla quale Fabio avrebbe organizzato la conquista di quattro formidabili scudetti e una meravigliosa Coppa dei Campioni colta, guarda un po’, proprio ad Atene. Racconta Furio Zara, in un eccellente pezzo sul Corsport, ricordando un feroce 8 a 2 del Milan al Foggia del profeta Zeman il 24 maggio del 1992: «Per il Milan è lo scudetto n.12, il primo dell’era Capello. Nei cinque anni a Milano ne vincerà quattro. Implacabile, disumano. Quell’anno chiude con un record: 34 partite e nessuna sconfitta (e senza Moggi; n.d.r.)… All’epoca Fabio ha 45 anni e un grande passato alle spalle, commenta le partite in tivù, a sceglierlo per il dopo-Sacchi è Berlusconi. Sembra un’eresia, sarà l’inizio di una nuova era. Vergogna, gridano i colleghi. Che c’entra lui con noi? Non lo vogliono, finiranno per prenderlo ad esempio…». La clamorosa stagione del Milan prepara e definisce il trionfo politico del Cavaliere, frutto del carisma del leader e del marketing sportivo. Qualcosa è cambiato, d’allora: Ancelotti non è Capello che anche di recente – prima di andare in Spagna per la seconda avventura Real – s’è presentato a una convention di Forza Italia a parlare – lui sì che può – di squadra. Come se lo slogan “uniti si vince” l’avesse coniato lui. Ancelotti non è un borghese come il furlan bisiaco ma un solido superoperaio emiliano adatto alle nuove sfide lanciate dal sor Silvio all’Unione. Non escluderei neppure un Ancelotti “de sinistra” infiltrato nelle file nemiche. Non era forse Sacchi un comunista rossonero come Bertinotti? Ricordatevelo, questo passaggio, per i tempi che verranno. Eppoi dicono che Berlusconi è un mister dilettante…