Bortoluzzi, Liedholm e Biagi. Un saluto a 3 amici

Italo CucciUn conto è scrivere i coccodrilli, un conto perdere gli amici, i compagni di viaggio, i punti di riferimento del tuo mondo. L’esercizio di bella scrittura lascia posto al dolore e, perché no?, al timore. Un altro che se ne va, un altro ancora. Nel giro di poche ore, Roberto Bortoluzzi, Nils Liedholm e Enzo Biagi – tre signori degli anni Venti – hanno chiuso la loro storia lasciando unanimi rimpianti espressi in lacrime e parole. Tante parole. Per Biagi, una sorta di lutto nazionale. Per Lidas, il cordoglio di due città, Milano e Roma, portato in Europa dal Milan e dalla Roma nelle notti di Champions League ed esteso al popolo del calcio. Per Bortoluzzi, un addio con grande riservatezza, nello stile della sua esistenza. La magica voce di Tutto il calcio minuto per minuto, colonna sonora della domenicale messa pallonara per una trentina d’anni, era stata archiviata nel 1987 e non era stata identificata con un volto, come prima o poi era capitato a tutti, a Ciotti, a Ameri, ai passeggeri della stravagante corriera radiofonica. Però restava integro il ricordo dei suoi rapidi annunci, dei suoi interventi senza sbavature, degli ordini signorili ma secchi che impartiva dalla cabina di regìa agli annunciatori di drammi e trionfi fra i quali spiccava Ezio Luzzi, il primo urlatore della storia dei media oggi, compagno allegrone di Bassignano nella radiosatira Ho perso il trend. Per il pubblico era stato una guida sicura nell’intricata giungla dei gol, per il giornalista sportivo il garante della notizia che doveva esser certa, per il calcio il notaio che assicurava la regolarità del torneo. E’ tutto un fiorire di rievocazioni dei ruggenti anni Sessanta, ma prima, prima, che cosa vi siete persi. Ad esempio il calciatore Nils Liedholm, le cui ultime imprese – aveva ormai quarant’anni – Bortoluzzi fece cantare dai suoi ancor giovani menestrelli nella primissima stagione di Tutto il calcio. Io l’ho conosciuto bene, il Barone, e per un atto d’omaggio che si doveva alla sua civetteria, non gli ho mai detto che era uno dei miei idoli fin da ragazzino; mi sono proposto all’allenatore Liedholm come cronista/allievo e più tardi, affiancandolo in una trasmissione televisiva, l’ho praticamente raggiunto: è il gioco dell’età, il tempo che passa rende contemporanei se non coetanei, i vent’anni che ci separavano all’inizio della storia s’erano dissolti. Ed ero finalmente riuscito a conoscerlo bene, a non subire la sua ironia stravagante che lo rendeva unico nel panorama calcistico fitto di figure e voci banali. Ormai in confidenza, sembrava svelare i suoi segreti come un prestigiatore a fine carriera: intenditore di calcio per natura, porgeva gli insegnamenti – anzi i suggerimenti – con delicatezza accompagnata da ironia, come volesse dire che la vita, poi, era un’altra cosa e il gioco del pallone non una scienza esatta ma un accadimento influenzato dagli astri che infatti lui indagava con nordica superstizione. Il suo distacco un po’ snobistico dagli psicodrammi domenicali gli meritò un rispetto particolare che suggeriva anche di ignorare la sua malcelata passione per i guadagni. In mezzo secolo l’ho visto incazzarsi una sola volta, quando alla guida della seconda Roma tentarono di accusarlo di qualche scorrettezza, ed esplose in un grido di rabbia accompagnato dalle parole che formavano il titolo di una canzone di Antonello Venditti, il suo menestrello preferito: «In questo mondo di ladri – disse – pensano di far ladri anche gli onesti». Calciopoli arrivò quindici anni dopo, e lui s’era già messo da parte per non assistere a tanta vergogna. Cosa c’entri Enzo Biagi, in questa storia, è presto detto: intanto per ragioni personali, che poi vi dirò, ma soprattutto perché era un vero appassionato di calcio, tifoso del Bologna «che tremare il mondo fa» fino al punto di diventarne consigliere/dirigente negli anni Settanta. Il suo modello di commentatore televisivo era Giacomo Bulgarelli, il capitano rossoblù che rendeva comprensibile il calcio con le parole così come l’aveva felicemente rappresentato coi piedi. Eppoi, quello squadrone faceva parte del suo piccolo mondo guareschiano, uno degli obiettivi di chi scendeva dall’Appennino – lui da Pianaccio di Lizzano – e attraverso le pallostorie s’integrava nel cittadone turrito. Ecco uno dei ricordi che trattengo con orgoglio: prima quand’ero a Stadio, poi al Carlino, mi giungevano telefonate di tre maturi goliardi il cui portavoce era lui, Biagi, che mi diceva: «Sono qui con Giorgio Vecchietti e Lamberto Sechi, abbiamo fatto una scommessa e lei deve dirci chi è quel vecchio calciatore del Bologna che adesso veste tutto elegante e porta il farfallino…». «Direttore – dicevo – è Raffaele Sansone”. Il telefono si riempiva di esclamazioni, risate, esplosioni di accenti bolognesi, prese in giro, ve l’avevo detto, ve l’avevo detto…Poi un saluto rapidissimo – grazie Italo – e giù il telefono. Non ho motivo, dunque, per tramandarvi momenti o frasi storiche del “mio” Enzo Biagi così come succede in questi giorni. Ho la pretesa di dire che io l’ho conosciuto bene perché mi chiamò, Biagi, nel giugno del ’70, il giorno dopo Italia-Germania quattroattrè, perché andassi (anzi tornassi) insieme a lui al Carlino. Cosa che feci senza pensarci un attimo. Restammo insieme un anno e fu l’anno più intenso della mia vita di giornalista. Mi disturba sentir parlare soprattutto del Biagi televisivo quando in realtà fu un grande inventore di giornali, un direttore/maestro impagabile, uno strepitoso collega perché ci si riconosceva tutti nelle comuni radici della cronaca. Mi dispiace anche sentirlo dipingere come un bonario curato di campagna preso ogni tanto da stizze passeggere. Bene: non ho mai avuto un direttore così duro e severo, capace di ferirti o raddrizzarti senza mai alzare il tono di voce, anzi, mormorandoti la tua stupidità. Pubblicai senza chiedergliene autorizzazione un’intervista al ministro delle Finanze Luigi Preti (amico dell’editore) sui macrostipendi dei calciatori e Biagi mi distrusse con dieci parole. Non sapevo che con Preti aveva da tempo uno scambio di lettere e cartoline al limite dell’insulto e della reciproca persecuzione. Sprofondai in un abisso di frustrazione. Nel quale mi lasciò per una settimana. Ho letto tante storie sui suoi rapporti difficili con gli editori, culminati con l’allontanamento “bulgaro” dalla Rai. Per quel che riguarda il Resto del Carlino, ho letto tante balle. Il cavalier Monti, che lo aveva voluto direttore, aveva deciso di trasformare il vecchio quotidiano degli agrari in odor di reazione e con l’etichetta liberal/malagodiana anche per assecondare i suoi affari. Il socialista Biagi, amico di Pietro Nenni e tutto sommato “socialista di Dio”, come si diceva allora, aveva avuto mano libera per la storica riforma: a parte me, ingaggiato per lo sport («So come la pensa politicamente – mi disse – ma non m’interessa: faccia il suo lavoro e andremo d’accordo») s’era portato Maurizio Chierici, Gianfranco Venè, Pirro Cuniberti, Nicola Pressburger e il mitico Trevisani, traduttore di Hemingway e ristrutturatore di giornali (che purtroppo ci lasciò troppo presto). Tutta gente di sinistra che impose una svolta forte al giornale irritando i lettori tradizionali ma conquistandone tanti nuovi nell’Emilia-Romagna rossa. Al top del rinnovamento, pubblicammo la storia a fascicoli di Garibaldi con l’Eroe dei due mondi in camicia rossa e di lì cominciarono i guai; aggravati da un pezzo di Venè sulle vedove di guerra, uno di Chierici sulla maggioranza silenziosa e altri articoli che irritarono gli industriali, i democristiani, i liberali, tutti gli Stimati Clienti del Vecchio Carlino. Io feci involontariamente la mia parte, pubblicando in ultima pagina una foto/poster a colori di Gigi Riva in maglia azzurra che esultava dopo il gol alzando il pugno destro al cielo. Lavoravamo insieme ormai da dieci mesi, Biagi mi chiamò nel suo ufficio, era stanco, ingrigito, aveva perso il guizzo sorridente degli occhi: «Legga qui», e mi porse una decina di lettere di “carlinisti sdegnati” per quel “manifesto comunista” che avevamo pubblicato. «Le mettiamo sul giornale di domani, risponda lei, dicendo la verità ma senza perdere dignità. Io ne ho i coglioni pieni». Si fece licenziare. Quando ci riunimmo in assemblea per decidere lo sciopero in sua difesa, bussò alla porta della redazione Province dov’eravamo riuniti: «Posso entrare? So che non è nelle regole, ma vorrei dirvi una cosa: non voglio scioperi, non chiedo chiassosa solidarietà, io me ne vado, voi fatevi i cazzi vostri». Ecco chi era – per me – Enzo Biagi. Che mi insegnò a presentarmi agli editori, ai colleghi e ai lettori con un biglietto da visita così concepito: «Non sempre ho scritto tutto quello che volevo ma non ho mai scritto quello che non volevo». Forza Bologna, direttore.

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